Grembiulino blu, lindo, ma un po’ scolorito, di seconda mano, donato dalle compagne più grandi, colletto bianco e fiocchetto di raso rosa, con la nostra cartella di nappa, mai nuova ci preparavamo ogni mattina a sfidare il mondo fuori dalle mura del convento.
Avevo ottenuto il permesso di anticipare di un anno il mio ingresso alla scuola primaria. Volevo andarci con mia sorella, ma essendo di un anno più piccola mi ero dovuta impegnare con tutte le forze durante le vacanze estive per apprendere a sufficienza ed accedere così alla prima classe.
Sono arrivata in quella scuola che sapevo già leggere e scrivere e la mia maestra era di una dolcezza commovente , grossi seni e profumo di mamma.
Il contatto con lei risvegliava il dolore, la mancanza della mia di mamma che continuavo ad aspettare e nemmeno la certezza della sua esistenza poteva bastarmi, attendevo il calore del suo esistere, il suono della sua voce, la bellezza di un suo abbraccio.
Il contatto con i miei compagni era sovente un atroce risveglio della verità, li osservavo davanti alla scuola con le loro mamma, ne scrutavo le attenzioni, l’amore, la cura e tutto diventava una lotta con la rabbia, l’impotenza e i miei occhi si dilatavano gridando disperati , senza voce contro il mondo fuori.
Le suore facevano il possibile e del loro meglio per farci stare bene, certo la nostra vita in convento era dettata da regole precise, disciplina, ordine e contegno, ma percepivo chiaramente che nella mia piccola esistenza mancava quel bene speciale e sicuro, quella dolce premura, l’amore incondizionato e unico e quella forza che può arrivarti soltanto dal cuore di una madre, dalle sue carezza, dalla sua musica, dal suo odore e dal suo modo di guardarti e seguirti mentre ti in-cammini per andare a scuola, quando ti aspetta all’uscita e ti passa le sue mani sulla testa per rimetterti a posto i capelli, quando ti stringe con ardore, orgogliosa di un successo, quando anche ti sgrida, ma comprendi che la sua rabbia non dura che un solo momento e un sorriso spontaneo si affaccia sul suo viso ed allenta e smorza ogni tensione.
Ogni giorno, andare a scuola significa anche questo, voleva dire sconcerto, confusione e quel senso di tristezza sproporzionata che sembrava assomigliare a un macigno pronto a cadermi sul cuore per ammazzare ogni entusiasmo, ogni volta era vedere la felicità, la sua possibilità e sentirsi tagliata fuori.
Ogni mattina al risveglio, dopo il suono della campanella, mentre mi preparavo,
mi lavavo e vestivo, mentre rifacevo il letto per recarmi poi in cappella per la lode mattutina e la S.Messa, venivo aggredita dalla paura e dall’ansia e sentivo che mi mancava il coraggio per affrontare il mondo fuori.
Ero consapevole che avevo timore, timore nel vedere negli altri l’amore che mi era stato negato.
Avevo paura, ma vincevo la paura ed era bellissimo sconfiggerla, quando la tristezza, la malinconia ed anche l’invidia mollavano la presa mi sentivo rinascere e venivo investita da un’ondata possente di felicità e ottimismo che mi spronava a correre incontro alla vita saltando di allegria.
“Il coraggio è di quelli che hanno paura: chi non ha paura o muore subito oppure si stanca di vincere”, ho letto questa affermazione in un libro e non ho potuto fare a meno di condividerla appieno.
È meraviglioso avere paura e vincere, perché è tra rincorse e delusioni che si aderisce all’amore e tra paura e coraggio che si insinua la speranza e la fede nel domani.
Io continuo ad avere paura, ancora oggi, che da quel convento sono uscita , che non sono più bimba ma madre , è rimasta quella linea di confine invisibile tra me e tutto il mondo fuori, ogni volta che la sento devo vincere , devo udire il rumore di ogni mio timore per desiderare il silenzio del coraggio.
Quando mi incammino nei ricordi e ripesco queste fotografie del passato , sono tentata di tornare indietro, in alcuni momenti avrei voluto cancellare ogni immagine di me con il cuore sperduto e tormentato dalla sofferenza, ma poi ho tentato il salto e mentre mi lanciavo ho compreso che era misurare il mio coraggio, era passione per la gioia e la vita e poi semplicemente incanto, poesia.
E della poesia mi sono lasciata sedurre e ammaliare, dalla fantasia e dall’ immaginazione creando mondi e sensazioni , credo che e proprio all’epoca di questi fatti io abbia iniziato ad affinare i sensi per cercare di resistere alla paura di sentimi così sola e abbandonata.
Le immagini di me allora improvvisamente si alternano, c’è una bimba curiosa che gioisce del calore del sole sulla pelle, che assaggia i gerani, si arrampica sugli alberi, che corre e canta, che improvvisa uno spettacolo teatrale, completamente inventato, che narra di fate e magie e colora di arcobaleno i suoi occhi di bambina e regala alle sue compagne di sventura sguardi di favole che iniziano sempre con accadrà domani.
La mia esuberanza ogni tanto mi costava qualche punizione, oltre alla classica tirata d’orecchie e pizzicotti terribili che bruciavano per giorni, c’erano: a letto senza cena, senza Furia cavallo del West, lavaggio piatti oltre i consueti lavori di turno assegnati ogni giorno, pulizia e lucidatura scarpe di tutte le compagne, pulizia chiesa che non mi dispiaceva affatto perché potevo approfittare per suonare l’organo e cantare a squarciagola, pulizia pollaio che odiavo ma diventava una vendetta perfetta perché aprivo il cancello e facevo scappare in giro per il cortile dei giochi galline, galli e conigli divertendomi da matta nel vedere quel fuggi-fuggi impazzito di bambini e animali.
La punizione che invece detestavo con tutte le forze e che fortunatamente non ho avuto grandi occasioni di sperimentare era quella dell’angolo del silenzio.
C’era un unico posto adibito per questo, era il sottoscala, usato prevalentemente come scarpiera, un posto buio e umido con un’unica lampadina a sospensione che si poteva accendere soltanto dall’esterno e che naturalmente in caso di punizione, veniva tenuta spenta, e un odore terribile di muffa e piedi sporchi.
Questa era la punizione per eccellenza, quella dei casi particolarmente gravi: tentata fuga, indisponenza, disobbedienza, aggressività e violenza.
Ricordo di aver sperimentato il sottoscala per essere fuggita dal convento ed essermi recata dal tabaccaio vicino a comprare caramelle e dolciumi dopo aver rubato spiccioli dalla cassetta delle elemosine in chiesa.
In quel sottoscala ho testato per la primissima volta la solitudine, l’angoscia, la di-sperazione e il senso spietato della morte.
Mai più come in quel momento ho temuto di non essere sentita da nessuno, di essere ignorata dal mondo, da Dio e dalla vita.
Ancora oggi, se ripenso a quel giorno, non riesco a dare un senso al tempo.
Quanto tempo sono rimasta, rannicchiata in un angolo con la testa appoggiata a una grande bacinella di plastica azzurra, a singhiozzare e morire di paura?
Forse è durato solo pochi minuti, forse un pomeriggio intero, forse un unico istante o può darsi la maggior parte del mio tempo vissuto in collegio.
Sì, quel sentimento di inquietudine, quella certezza di essere sola, indifesa e di-menticata non mi ha lasciato un solo istante in quegli anni, ogni tanto mi è capitato di rivivere quella sensazione, e oggi proprio come allora ho dovuto sfidare il buio, l’angoscia e le lacrime, accedere ad ogni possibile inimmaginabile mia risorsa per trovare il coraggio e resistere aspettando che la porta si aprisse per vedere il sole fuori e tornare a ridere e giocare.
Forse è proprio nel momento esatto in cui si ci sente perduti e senza speranza che si scoprono in noi potenzialità sconosciute e misteriose che ci fanno resistere e lottare contro la morte ed proprio allora che sperimentiamo il valore effettivo della nostra esistenza.
Non lo temo più il dolore, non lo considero nemico, da lui ho imparato a fidarmi , grazie a lui so pesare la gioia, quella vera che nasce da dentro e come un vortice di vento ti riporta nell’ ombelico della vita, devo a lui il piacere delle cose che nutrono di bene lo stomaco dell’anima ed è ancora per merito suo che inseguo sempre l’amore in ogni cosa.
Il dolore non mi ha incattivita, irrigidita ma paradossalmente ha reso il mio cuore morbido e sensibile, quando mi avvicino a qualcuno sento l’anima dilatarsi di bene e attenzione e questo mi fa sentire non più sola e abbandonata ma parte del mondo.
Certo da bambina non avevo questa consapevolezza, da bambina era dolore puro, vivo tagliente, era rabbia, era disagio.
Eppure ricordo già allora ogni tentativo disperato per salvarmi da quel senso di tristezza, ero generosa, vivace, estroversa sorridente e solare, ero amabile e persino simpatica.
Avevo compreso, inconsapevolmente che non restano che due possibilità nella vita: la prima, quella di farsi inghiottire dal vuoto di una mancanza e lasciarsi travolgere dal turbine della solitudine fino a schiantarsi contro il mondo, la seconda quella di colmare ogni mancanza con una moltitudine di cuori e anime in una spirale di sentimenti fino a stravolgere la matassa del silenzio trasformandolo in musica dal mondo.
Ed io da allora ho cominciato a riempire tutta la mancanza con bagliori invisibili di fiducia e speranza, piccoli filamenti di perline colorate che sembravano scendere direttamente dalle stelle per salvarmi dal buio della notte ed ho iniziato a sentire sempre una musica suonarmi dentro.
Ed ancora adesso sento il bisogno di quella musica, tintinnante, carezzevole, che conosce e riempie di pause e note ogni mia mancanza., sovente sento la necessità di farmi cullare e trascinare lontano e proprio come allora porgo l’orecchio e lo poggio sulla mia anima ruvida e striata da mille segni e colori, posso sentire il mare in fondo.
È il sibilo suadente di voli senza paura, è la mia musica, mi tiene compagnia, a volte ha l’effetto del vino stordisce e inebria, profuma di vita e verità , è una musica meravigliosa e antica potrebbe essere un richiamo segreto a cui pochi resistono è selvaggia, nomade e avida di sorrisi dimenticati.
Ed anche al buio riesco a resistere, funzionava così da bambina quando sentivo avvicinarsi la notte, funziona ancora oggi perché non si smette mai di temere il sopraggiungere dell’oscurità, nemmeno da grandi, quando costruiamo impalcature possenti per sentirci forti e sicuri ed invece non facciamo altro che edificare distanze e non ci lasciamo toccare più da nulla.
La sentivo la mancanza, mi pungeva la pelle ogni momento e nutrivo soltanto il desiderio di correre, correre via, veloce a sfidare il vento, lontano da tutte le ombre che offuscavano il mio sorriso pulito e bambino, sognavo soltanto corse infinite per cercare posti tranquilli, discreti dove poter fare tutte le smorfie di disappunto e di rabbia, luoghi per cantare senza timore e vergogna per qualche nota stonata e stridula,posti solitari per accarezzarmi il cuore e riempirlo di sogni ..luoghi dove gridare con quanto fiato avevo in gola per sentire l’eco lontano della mia voce stropicciata dal pianto..urlare fino ad aver voglia di silenzio, soltanto silenzio per capire se davvero ogni preghiera dei bimbi è sacra..e attendere, un segno, una foglia caduta per caso,un fiore che si dondola con il mio sospiro stanco,una cosa qualsiasi che sveli una magia in cui credere e sperare.
Forse è così che ho imparato ad amare la mia solitudine, a viverci dentro fino a sentirla mia, mia come l’unica cosa davvero mia, fedele, amica, sorella, una solitudine piena, piena di ogni cosa che amo, ogni cosa che voglio e ogni cosa che mi manca,benedetta, benedetta dai miei stessi occhi e dal mio cuore stremato.
Sento sempre il suo richiamo, la sua voce suadente che immobilizza ogni incertezza e mi invita a cullarmi tra le sue braccia di mamma e come una mamma accoglie i miei umori, i miei sorrisi e ogni tristezza e ne fa nenie gentili che mi trasportano altrove
con l’unica certezza l’unica garanzia di non essere mai sola davvero ed allora immagino danze sull’anima fatte da farfalle invisibili che disegnano arabeschi di luci e colori, oggi vado in uno dei mie tanti posti segreti, corro,vado a ripescare ricordi come baci che stordiscono i sensi,fino a ubriacarli di sola bellezza a pestare tracce di coccole antiche di parole come chiavi che aprono scrigni nascosti, parole che non si dimenticano e amore che resta,vado, una corsa per riprendere il passo.
G.M