
Sento di essere stanca, di avere in bocca quel gusto strano di miele e sangue, non mi abituo ancora al sole quando si dissolve e i miei respiri assomigliano tanto a fili appesi che cadono sulla schiena e fanno troppo rumore, i miei occhi restano ruvidi e non scivolano s’affannano su orizzonti lontani troppo distanti, rimangono ancora vuoti da colmare e non mi basta niente.
Forse c’è che c’è ghiaccio, un ghiaccio infernale ed io ho mille perle di profumo che non so distribuire che non posso trattenere tutto l’esistere che inseguo lo sento addosso, sotto la pelle, e mi abbandono tra le braccia della nostalgia aspettando di compormi, salgo e riscendo imbrigliando i pensieri, ho mille strade e vene attorcigliate che non so raccontare, la vita mi appassiona e poi improvvisa mi sfugge e con lei tutto il senso e rimango sola, dannatamente sola e mi piace.
Sono l’unica presenza che riesco a sopportare, sono sola e vasta ed ho una melodia irresistibile che risuona nella testa che mi seduce, ma che poi si perde ed io non riesco a dire basta.
Quando provi la solitudine dell’abbandono impari a accontentarti, a ridurre le pretese, ho trascorso troppo tempo in una terra lontana esiliata dalla possibilità di ricevere amore ed ora disegno la luce dove posso divorando la mia stessa cecità.
Scappavo, in convento, fuggivo appena potevo, mi nascondevo nei posti più strani pur di non farmi trovare, sono stata punita tante volte per questa ragione perché nel mio rifugio segreto dimenticavo ogni cosa mancando spesso agli appuntamenti per le preghiere, le suore allora si accorgevano della mia assenza e cominciava una vera e propria caccia per ritrovarmi magari seduta in un angolo del giardino nascosta dietro ad un cespuglio, o accomodata tranquilla tra i rami di un albero. “Devi toglierti questa abitudine di nasconderti, si può sapere perché lo fai, vuoi metterci tutti in allarme e farti cercare, lo fai per dispetto”? Mi rimproverava la suora, afferrandomi per un orecchio.“No, non lo so, lo faccio perché mi piace”. Rispondevo tranquilla, impassibile di fronte alla minaccia di una punizione.
Mi sono domandata sovente anch’io perché sentivo l’impulso irrefrenabile di scappare a nascondermi, e credo di aver capito che talvolta la realtà del convento era davvero insopportabile tanto da indurmi a cercare un rifugio segreto, un luogo nascosto da tutti per poter dare sfogo alla mia rabbia, alla mia delusione, per scaricarmi di lacrime senza sentirmi così costretta a fornire spiegazioni, forse un vago senso di dignità del dolore.
Sapevo che mai avrei trovato consolazione e sollievo a tutta la tristezza che provavo, che non avrei trovato mai uno sguardo che potesse parlarmi di me. L’attesa dei miei genitori, di loro notizie mi lacerava di impazienza e timore, lo sgomento e l’incertezza di un ricongiungimento mi straziavano la mente, cercavo di vincere il turbamento con tutte le forze, ero frenetica, ogni giorno inventavo qualche marachella per sviare l’attenzione da quell’ incessante tormento.
Mia sorella era l’esatto contrario di tutto ciò che io ero, timida e riservata, chiusa a riccio nella sua fortezza si appartava spesso solitaria a giocare e parlare con la sua bambola composta da una vecchia coperta a cui erano stati stretti dei lacci per simularne la forma del capo e degli arti. La rivedo, con i suoi grandi occhi neri, spauriti e velati, la sua espressione assente e distante, la pelle scura olivastra di mio padre seduta su un gradino usurato mentre culla la sua pupa di stracci, la sento mentre canta timida e sommessa la sua nenia perpetua che non trova mai sonno. Di noi si poteva dubitare persino della nostra origini comuni tanto la differenza fisica e caratteriale, i miei capelli erano ondulati e chiari, la mia pelle mista tra quella eterea di mamma e quella scura di papà le mie guance paffute e arrossate insieme agli occhi vispi e profondi.
Con il passare degli anni la diversità fisica si è attenuata a tal punto che a vederci vicine, una accanto si comprende facilmente che siamo sorelle, abbiamo in comune le stesse espressioni, lo stesso sorriso, e lo sguardo spesso adombrato da nuvole disegnate dai medesimi ricordi, persino un simile timbro vocale. Per quanto concerne il carattere anch’esso con il tempo ha trovato molti punti in comune, lei ha superato la timidezza che l’ha contraddistingueva da bambina pur mantenendo un atteggiamento di fondo calmo e lento, io ho imparato a tenere a freno la mia esuberanza pur conservando la mia frenetica eccentricità.
Entrambe abbiamo trovato nella creatività, stimoli, bellezza e motivi di gioia, lei è un’eccellente pittrice che dipinge tele di encomiabile fascino, io ho trovato nella scrittura la mia fonte di espressione e quiete.
Resto convinta che la creatività, è un ottimo medicamento per l’anima, spesso attraverso questo canale si curano e si imparano a domare i segni delle lacerazioni più profonde, si purifica il dolore, ogni forma d’arte eleva lo Spirito inevitabilmente e ti spinge oltre, dentro te nel profondo e invita ad esprimere, comunicare, donare e condividere, ti obbliga ad abbracciare il tuo ego per poterlo espandere, ti propone di lasciar andare senza trattenere, ti educa all’offerta che è poi il vero senso della libertà, ti obbliga alla verità, ti avvicina a quel senso immenso dell’ Amore, del Dono e della Vita.
In convento, nutrivo nei suoi confronti istinto di protezione, mi accertavo sempre che nessuno potesse farle del male, che nessuno potesse approfittare mai della sua indole così apparentemente bonaria e riservata, mi sentivo più forte nonostante io fossi la sorella minore mantenendo nei suoi riguardi un sentimento quasi materno.
Crescendo ho capito in diverse occasioni che in realtà lei non era affatto debole e disarmata, ma come me aveva adottato un suo comportamento difensivo a fronte di un malessere che le divorava ogni giorno il cuore.
Per lungo tempo lei ha rimosso dalla mente ogni ricordo della nostra vita in convento; solo in rare occasioni si è lasciata sfuggire qualcosa alludendo ad una funesta assenza di affetto che aveva desolato irrimediabilmente la sua infanzia, non si è mai lasciata trascinare come me nella voragine di tutto quel tempo che come fiume in piena inonda ogni traccia di vita e ti lascia esausta, inerme vuota.
E’ strano come sovente si ci difende dal dolore, qualcuno erge palizzate e ponti e si mantiene a distanza di sicurezza abbastanza per non farsi distruggere totalmente qualcuno l’affronta a petto aperto lasciandoci brandelli di cuore e qualcuno ancora semplicemente cerca di dimenticare;
sicuramente io e lei abbiamo affrontato la minaccia, il pericolo, la sfida e infine la battaglia in ogni modo, ma in tempi e modi diversi di questo sono certa perché a tratti ho visto nei suoi occhi le mie stesse sconfitte le delusioni, le conquiste, la fierezza e gli inganni.
Oggi mi manca da morire, di lei mi manca la spensieratezza della nostra infanzia mai stata ho troppi ricordi di sorrisi macchiati e l’ombra di una tristezza infinita che contorna la memoria, non ho corse gioiose e visetti felici che guardano verso il sole ma la staticità imperfetta dall’attesa che ti costringe a guardare verso muri di pietra, le braccia tremanti di freddo e abbracci nel vuoto, so che come me ogni giorno paga il conto di quella anomalia di protezione che ci ha reso più fragili e ha permesso di farci sentire umiliati, in difetto d’amore , affamati e indolenziti per sempre.
Oggi mia sorella se la cava, si è salvata come me dalla morte del cuore me ne accorgo quando le sento esultare di entusiasmo per il bene, il nuovo e l’inatteso, l’ho vista vibrare di dolcezza e tenerezza per un sorriso, una parola un gesto apparentemente insignificante e leggero, l’ho scorta celare timida lacrime di commozione per una attenzione gentile, un gesto d’affetto garbato è vero il suo cuore è desto, vigile e attento, tutte le pieghe che ha lasciato il dolore si tendono in moti di speranza ad ogni segno di calore, il suo sguardo così lungamente perso e distante si aggrappa al cielo appoggiandosi al domani che muta ogni volta, carico di fiducia consolato dall’ accettazione.
G.M